Cap 32 - Dai nemici mi guardo io, dagli amici mi guardi Dio
Posto sconosciuto – 17° midwinter
Tutto intorno, le pareti sembrano
essere di metallo. È un posto asettico. Strano, per essere all’interno di un
maledetto iceberg. Dovrebbe esserci un freddo che ci trapassa la carne, invece
tutto è silenzioso, troppo silenzioso, nonostante le voci che arrivano poco
distanti alle mie orecchie a punta.
Passo in rassegna i volti dei miei
compagni. Sì, compagni. Una parola che fino a poco tempo fa mi sarebbe
sembrata ridicola farla roteare nei miei pensieri, possiamo dire quasi
offensiva.
Io. Proprio io che sono sempre
stato solo. Solo con me stesso, le mie lame e la mia capacità innata di fottere
il prossimo, prima che il prossimo fotta me, ad eccezione di signorine
discinte, sia chiaro. Quelle possono fottere come e quando vogliono.
Eppure… già. Eppure adesso
qualcosa è cambiato. È come se quei tre - la fatina ansiosa, il topino mangione
e la principessa tragica - contassero davvero qualcosa per me.
Una sensazione nuova, decisamente
fastidiosa. Potrei definirla quasi affettuosa. Vomitevole. Ma tutto sommato…
bella. E mi pesa ammetterlo a me stesso.
Getto distrattamente uno sguardo a
Britz, nascosto nell’ombra; i muscoli sono tesi, pronti a scattare se
l’occasione lo richiedesse, la sua attenzione è tutta sulle parole dei quattro
tizi vestiti da preti di un chissà quale calamaro, ancora ignari della nostra
presenza. Synthariel è in silenzio, accanto al piccolo amico, studia anche lei
la situazione, cercando di capire quale potrebbe essere il modo migliore per
attaccarli. È attenta, concentrata, ma non si accorge che il suo braccio sfiora
quello del mio amico, che non sa più che scusa usare per riuscire nel suo
intento con lei.
Il buio lambisce i nostri corpi e,
forse, quella più sulle spine è Myra.
Dannata Myra, il mio chiodo fisso.
Sempre con quell’arroganza irritante e quei modi da principessa
dell’apocalisse. Attorno a lei è come se ci fosse sempre una luce nera che
sembra volerla trascinare giù, nel baratro. E a volte pare quasi ci si butti da
sola, a capofitto, di testa senza feather fall.
La osservo in silenzio mentre
all’improvviso si porta le mani alle tempie, come se improvvisamente le fosse
venuto un mal di testa così forte da lacerarla in due. Per un attimo penso che
stia per crollare su sé stessa, che stavolta sia davvero troppo. Poi come
niente, si ricompone. Dopo tutto questo tempo passato insieme, so già cosa le
sta accadendo e la preoccupazione fa capolino quasi istintivamente.
Si guarda intorno di sfuggita e…
ovviamente mi becca mentre la fisso. Alzo un sopracciglio, con la naturalezza
di chi è colpevole e ne va fiero e le indico col capo le tette con un vago
cenno di apprezzamento. Una di quelle tipiche cose nostre, tra lo scherzo e il
flirt che di solito si meritano una frecciata, ma lei… niente. Nessuna
risposta. Nessuna reazione di alcun tipo, solo un’ombra rapida di
preoccupazione.
Poi, senza preavviso, ne fa una
delle sue. Senza dire una parola, come se fosse la cosa più normale del mondo,
avanza ed entra nella stanza; le mani sollevate in segno di pace, un sorriso
tirato e poco genuino sulle labbra e quella solita incoscienza travestita da
coraggio che ormai conosco troppo bene.
L’istinto sarebbe quello di pestarle
con un piede lo strascico di quel fastidioso abito voluminoso e tenerla
ancorata accanto a me, ma non faccio in tempo e si allontana prima che io possa
fare alcunché.
Parlotta con la feccia, lei. Come
se niente fosse. Ignora tutto e tutti, persino le mie parole che le entrano
nella mente, le scivolano addosso. E, sì, anche io ho notato quel simbolo, il
grosso calamaro viola. E, sì, anche io voglio ovviamente saperne di più. Tutto
ciò che può ricondurre a mia madre, al mio passato, a quella fottuta strage che
ancora mi perseguita… È sempre in cima ai miei pensieri. È in ogni movimento
che vedo nelle ombre. In ogni parola che capto in ogni angolo dei posti che
visito.
Ma non così.
Non entrando a caso.
Non senza uno sguardo.
Non senza
prima dirci qualcosa.
«Ma non possiamo parlarci con una
lama attaccata alle loro gole?» tento un approccio nella sua mente, ma non
sembra attecchire.
Qualcosa le frulla in testa, lo
vedo distintamente anche se ora mi mostra le spalle, ma non riesco a capirlo. E
il fatto che lei non mi dica nulla mi fa impazzire.
Ci eravamo promessi una
cosa, a Gundarlun, quella notte, a base di rum scadente e trattati sulle api,
in un raro momento di quiete e sincerità. Ci saremmo detti tutto: ogni
sospetto, ogni dettaglio, ogni più piccola cosa che avrebbe anche solo potuto
rivelarsi utile. Forse era solo una scusa, una trovata melodrammatica per
starle vicino senza ammetterlo troppo, ma io ci avevo creduto in lei. Per una
sera avevo davvero pensato che Myra fosse una persona di cui ci si potesse
fidare. Adesso invece era lì, a fraternizzare con il nemico.
Le parole le escono confuse,
incerte, come se neppure lei fosse davvero convinta di ciò che sta facendo.
Per
un attimo - solo un attimo - sembra che le parole di sdegno di Synthariel la
possano scalfire, fare breccia in quella corazza fatta di orgoglio e
incoscienza. Ma no. Myra tira dritto, imperterrita e ci tradisce. Tradisce noi
e la nostra posizione, nel preciso istante in cui i quattro non sembrano
disposti a cedere.
Tradisce me, ed è la cosa che fa
più male di tutte. Poi, tutto accade in un attimo.
I movimenti diventano veloci,
nervosi, repentini. Myra, immobile come un dannato stoccafisso, rimane lì, le
sue gambe non vogliono spostarsi. Non arretra di un passo, non dice una parola.
Britz, al contrario, agisce e colpisce.
Una freccia parte con una violenza
tale, che il primo pirata viene trafitto da parte a parte e inchiodato al muro
come un quadro che ritrae una scena macabra.
Io dal canto mio, la sorpasso a
passo deciso, lanciandole uno sguardo tagliente, come a cercare tra le pieghe
del suo volto un segno, uno solo, di cedimento, ma quello che vedo è guerra.
Una guerra vera, che le agita lo sguardo e le stringe la bocca in una linea
troppo tesa per essere ignorata.
Non so cosa la tormenti e,
onestamente, non è questo il momento per mettersi a chiederglielo. La sposto
col peso del mio corpo, passandole accanto in malo modo, senza riguardi né
delicatezza e lei non fa un passo in alcuna direzione. Anzi, mi spinge a sua
volta col fianco, quasi a mettermi in difficoltà, proprio nel momento in cui mi
preparo ad attaccare.
Un gioco pericoloso, come sempre, come tutto quello che
facciamo insieme del resto.
Mille pensieri, mille parole non dette si affollano
nella mia testa. Vorrei afferrarla per le spalle, scuoterla, chiederle che
diavolo le passi per la testa, ma tutto ciò che riesco a fare è lanciarle
un’occhiata. Un’occhiata che dura un istante e una vita.
Le guardo l’anima. E
per un attimo la vedo.
Poi decido di nascondermi dietro
al grosso tavolo che ribalto velocemente, cercando, nel caos che mi circonda,
un motivo - uno solo - per fidarmi ancora di lei, tentennando, mentre stringo
le nocche fino a farle sbiancare, attorno ai miei pugnali.
Non si risparmiano i colpi, anche
Synthariel entra in scena, sfoderando magie come se piovesse, abbattendo e
dilaniando i nemici con una freddezza quasi spaventosa.
La situazione è
surreale, gente impalata al muro con frecce in ogni dove, tavoli rovesciati, un
calamaro viola come stemma, e nel mezzo, noi, i quattro della compagnia del
cervelletto, eppure Britz e Synthariel non smettono di richiamare Myra
all’ordine. Tra una stoccata e l’altra, tra un incantesimo e un’imprecazione,
le loro voci si fanno sentire. Britz, fedele al suo pensiero, è brusco,
pungente. Non ha mai davvero abbassato la guardia con la warlock e le sue
parole la colpiscono dritte al punto, senza filtri.
Synthariel invece… nelle
sue parole c’è qualcosa di diverso; non rabbia, non solo almeno. C’è delusione.
Quella che ti mozza il fiato e ti stringe il cuore, quella che nasce quando
qualcuno a cui tieni davvero ti volta le spalle.
E io?
Resto immobile e in silenzio
nascosto dietro a quel grosso tavolo che ho ribaltato con un calcio secco
sparpagliando cibo e vettovaglie in giro. Sono rintanato dietro come se fosse
una grossa barricata, contro tutto e tutti. Anche contro di lei che ora non
riconosco più. Contro quel pensiero che inizia a mangiarmi da dentro. Avevo
cominciato ad aprirmi, a fidarmi. A crederle anche quando lei era solo l’ombra
di sé stessa, quando era solo misteri e segreti. Avevo scelto di starle accanto
anche quando tutto e tutti mi urlavano il contrario. E ora? Non era più degna
di fiducia? Tanto valeva tornare a quello che ero sempre stato: solo. Immune a
tutti quegli sballottamenti emotivi, immune a tutto ciò che mi rendeva
vulnerabile. Immune anche a lei, che in fin dei conti, era come uno di quei
tanti coltelli che avevo lanciato; quando valeva la pena tornavo a prenderli, a
volte non era poi così importante.
Ma nel caos di quella stanza, tra
piatti rotti e cibo volante, trovo ancora un motivo, uno solo, un minuscolo,
impercettibile, irrazionale motivo per fidarmi ancora di lei. Perché se ho
imparato qualcosa in mezzo a tutto questo casino che mi è piombato addosso, è
che certe battaglie si combattono quando ne vale davvero la pena, e Myra,
evidentemente, la vale anche se non riesco a capire il perchè.
La warlock ci riprova, tenta
nuovamente un approccio ottimistico cercando di trovare un accordo con quei
quattro trogloditi in tonaca, ma l’accordo finisce nell’unico modo possibile, e
nell’unico modo che conosce Myra: a spadate in faccia. Nessuno ci sta a
ragionare e finalmente, Myra, torna in sé, facendo tirare un mezzo sospiro di
sollievo ai suoi amici - ai suoi compagni. Perché ormai è chiaro: nessuno lì
dentro è davvero solo.
I pirati
cadono, uno dopo l’altro, fino al loro capo, ma quello non ci tiene a morire
come uno scemo qualunque; pochi istanti prima di crepare male, sembra
posseduto, gli occhi diventano completamente neri e poi si affloscia a terra
come un fico mollo.
Naturalmente partono subito le domande a bruciapelo, con
toni non proprio pacati, ma Myra è confusa, in preda all’indecisione più
totale. Si piega su sé stessa, si tiene le tempie, il volto contratto dal
dolore. Per un attimo la guardo in trance, come se stessi cercando di decifrare
un enigma impossibile da risolvere. Vorrei aiutarla, buttare giù quei muri che
mi sono costruito con fatica negli anni. Capire, fidarmi, lasciarla entrare,
possibilmente entrare io in lei, e non solo metaforicamente, ma…
Ma abbattere
quei muri significherebbe scoprire delle parti vitali, troppo fragili.
Significherebbe diventare vulnerabile, e io, non posso permettermelo. Non in
mezzo a cultisti psicopatici, non con un passato che mi insegue senza sapere
cosa diavolo sta succedendo nella testa di quell’elfa. O qualunque cosa sia
stata.
Propongo quindi due strade, niente mezze misure: o noi tre torniamo
indietro e lei prosegue da sola, o è lei a fare marcia indietro, ma deve sapere
che d’ora in avanti, noi non avremo pietà per chiunque si metterà sulla nostra
strada.
Sono duro, brusco, letale e non lascio diritto di replica. Quando i
nostri sguardi si incrociano non c’è ombra di incertezza in me e lei lo nota ed
ha un sussulto, è turbata nel vedermi per la prima volta così serio.
Silenziosa
scruta i volti dei suoi compagni. Britz ha le braccia incrociate e le
sopracciglia aggrottate mentre scuote la testa poco convinto. Synthariel negli
occhi ha una preghiera silenziosa, una supplica. Non vuole perdere la sua prima
- e forse unica - amica. Non dice nulla, ma quello sguardo urla più di
qualsiasi altra parola. Infine mi guarda, o meglio, mi guarda di sfuggita,
quasi per sbaglio, come se mi volesse evitare apposta, poi si fissa imbarazzata
i piedi. Sorrido tra me, e non per deriderla - no - ma perché so che qualcosa
la sta torturando e ho il sospetto che quel qualcosa sia proprio la mia
presenza.
Scuote la testa, incassa il colpo e come sempre si rimette in piedi.
L’elfa non accetta di abbandonare il gruppo. Dice con aria seria che non
tradirà mai noi tre, qualsiasi cosa accada, troverà una soluzione andando
avanti, in un modo o nell’altro ce la caveremo, anche questa volta. In fondo se
il suo patrono la vuole qui per unirsi e allearsi con questi cultisti, per lei
dovrebbe essere una passeggiata, ma è anche chiaro che avrà un’unica scelta.
Non serve dire ad alta voce quale sarà, nessuno di noi lo fa.
Proseguendo
verso nord, noi quattro ci addentriamo in un corridoio stretto, che presto si
biforca. Senza pensare troppo, imbocchiamo la via verso nord ritrovandoci ben
presto davanti ad una porta, dietro la quale si sente un rumore continuo che
potrebbe assomigliare a quello che fa un sottomarino.
Dietro la porta, una
grossa sala circolare si apre dinnanzi a noi. La scena che ci si staglia
davanti è surreale: diverse figure occupano lo spazio ma solo tre - incatenate
come bestie - sembrano innocue. O meglio, sono completamente fuori
combattimento con gli occhi chiusi.
Accanto a questi arpisti caduti privi di
sensi, tre grossi yeti grossi come carovane e coperti di pelo ispido si agitano
al centro, affiancati da alcuni cultisti.
E poi in fondo, lei, che si presenta
come Svetlana Brokenstag, che si solleva dal terreno librandosi in aria,
attirando sguardi curiosi su di sé.
Non incute timore, lei incute paura. Di
quella viscerale, quella che ti si aggrappa allo sterno e non ti lascia
respirare. Non ci intimidisce, lei ci minaccia. Ogni suo gesto è una promessa
di morte, ogni parola un avvertimento. E mentre la sua voce echeggia nella
sala, istintivamente, guardo Myra, cerco una risposta, un indizio, qualsiasi
cosa.
La warlock ha
di nuovo quella faccia, quella che ormai conosciamo bene: lo sguardo attento,
la mandibola serrata, le pupille fisse che tremano appena come se stesse
ascoltando una voce solo sua, perché è così. Lei sta traducendo e soppesando
ogni singola frase. Sta cercando di capire.
Mentalmente parla a noi, i suoi
compagni, e ci condivide un sospetto che le brucia nel petto: forse quelle
parole che ha sentito nella sua mente, quelle sussurrate, ossessive, non
arrivano dal suo patrono, ma da qualcuno che si sta prendendo gioco di lei.
Quando incrocia il mio sguardo per un istante - uno solo - è come se a me
mancasse un battito. Un battito che ritrovo subito, con la delicatezza di
un’ascia scagliata con violenza contro la testa di un goblin, quando Svetlana
scaglia su di noi un violentissimo cono di vento gelato che ci investe come una
valanga.
Io e Britz
facciamo in tempo a schivarlo, ma Synthariel e Myra dietro di noi vengono
investite in pieno. La druida cade all’istante, scaraventata a terra come una
piccola bambola fatta all’uncinetto, Myra, grazie anche all’abito di
Arveiaturace, che ormai è diventato il suo marchio di fabbrica, resta
miracolosamente in piedi e Svetlana, davanti a noi, non ha ancora nemmeno
iniziato.
È Myra a rompere l’equilibrio. Non chiede il permesso, non aspetta il
momento giusto, semplicemente, agisce. Un lampo oscuro le esplode tra le dita
mentre si lancia in avanti. Le mani si alzano e l’aria si piega alla sua
volontà, sprigionando un’onda violenta di pura energia che schiaccia l’aria e
colpisce Svetlana in pieno petto.
È allora che mi
muovo e non serve un segnale; nessuno sguardo, nessun cenno. Avanzo come se
fossi una continuazione di lei, come se i miei muscoli sapessero già dove
andare, come se la rabbia che la brucia fosse anche la mia.
Le lame sfrecciano
nell’aria e le lancio contro la creatura ancora stordita. Una lama le affonda
nella gola, l’altra nel fianco, il colpo la travolge e Svetlana crolla al
suolo. Nel silenzio che segue, il corpo cade come un sacco svuotato. Niente
ruggiti, niente frasi finali. Solo il suono sordo della caduta.
Noi due
restiamo fermi, ma non ci guardiamo, lo sappiamo e basta. Per un istante
abbiamo combattuto come una sola creatura. Due cuori, due corpi, ma un unico
istinto. E Svetlana, in quell’istante, non ha avuto alcuna possibilità.
Britz di
rimando non perde tempo, si scola una pozione in un solo sorso, poi si volta
verso la druida, che giace a terra vicina a lui, ancora intontita e mezza
congelata e, senza dire una parola, si china su di lei e… la bacia.
Ma non uno
bacio da amico, né uno di quelli da “parto per sempre, addio”.
No.
Un bacio
vero, carico di tutto quello che non le ha mai detto, di tutta l’adrenalina, la
paura, la speranza, la gioia che non sapeva di provare finché lei non ha aperto
gli occhi. Un attimo dopo Synthariel si tira su, come se fosse stata colpita da
un fulmine, confusa, arrossita e con ogni probabilità decisamente più viva di
prima.
Osservo la
scena mentre un sorriso stupido mi si dipinge sul volto. Istintivamente
ridacchio puntando il dito cantilenando un «Snowballing!! Snowballing!!»
dimenticandomi per un attimo dei tre grossi yeti che ci puntano, ma qualcosa
dentro di me si smuove, qualcosa che non è solo ironia, non è stupore o
sorpresa, è una sorta di quieta soddisfazione. Perché Britz, il mio timido ma
tenace amico Britz, in un modo tutto suo, alla fine ha trovato il coraggio.
Perché anche lui merita di ricevere un gesto sincero, vero, che non ha bisogno
di parole. E io questo lo capisco fin troppo bene, forse perché anche io, in un
modo tutto mio, sto aspettando di trovare lo stesso coraggio.
A questo punto
il combattimento procede senza esclusione di colpi. Resto in piedi, per poi
cadere, e poi ancora in piedi, e ancora giù, come una fiamma testarda che non
vuole spegnersi, anche se a me nessuno decide di ficcarmi la lingua in gola.
Forse scorgo un vago cenno quando Britz mi passa accanto, ma vedo che il lampo
negli occhi gli muore subito, così come gli è nato.
Ogni volta lo
faccio con coraggio, con partecipazione, con l'orgoglio feroce di chi ha deciso
che morire in piedi è meglio che vivere in ginocchio. Io non devo provare
niente a nessuno. Non ho padroni. Non ho debiti. Eppure… Ogni volta che una
lama affonda, ogni volta che un incantesimo esplode accanto a me, sento il
fiato spezzato di Myra. Lo riconoscerei ovunque, quel piccolo sussurro d’ansia
che le sfugge quando io vacillo. Non la guardo mai direttamente, ma è come se i
suoi occhi fossero sempre lì, a un passo da me. E allora nella mia mente si
insinua, come una lama sottile, una frase che non riesco più a togliermi di
dosso: "È come se lo stessi facendo per te."
Me lo ripeto.
Me lo ripeto in continuazione. Me lo ripeto mentre affondo un colpo, mentre mi
rialzo, mentre il sangue mi cola dalla fronte e la vista mi si annebbia.
Continuo. Continuo solo per lei. Anche se lei non lo sa. Anche se forse non lo
saprà mai. Anche se nemmeno io lo ammetto a me stesso.
Quando
finalmente ogni nemico giace a terra e il silenzio si riprende la stanza, i
nostri respiri affannosi rimbombano contro le pareti come tamburi esausti.
Le
membra sono pesanti, i muscoli tremano, il sangue cola lento dalle ferite che
pulsano come a ricordare che, sì, siamo ancora vivi.
Guardo i miei compagni.
Britz è in piedi, accanto a Synthariel, le guance arrossate mentre le sussurra
qualcosa che a quella distanza non si può sentire. Forse una battuta, forse una
frase di circostanza. E poi c’è Myra. Lei passa il dorso della mano sulla
fronte, un gesto semplice, quasi umano, come a scacciare il sudore e i
pensieri.
Poi mi guarda.
Non mi guarda soltanto.
Mi vede.
Mi scruta a fondo, come se finalmente qualcosa
fosse caduto. Come se, almeno per un istante, mi vedesse davvero. E mi sorride.
È un sorriso fugace, fragile come vetro sottile, ma vero. Poi si volta, i suoi occhi
si posano su Svetlana, che rantola a terra, ormai vinta. E quando anche a lei
gli occhi si oscurano e implode su sé stessa in un abisso di ombra, tutto si
spegne. Tutto tace.
Osservo l’elfa.
Vorrei sapere cosa le passa per la testa. Vorrei entrarci dentro, quella mente,
e scoperchiare quel vaso di segreti che lei si porta addosso come una seconda
pelle. Vorrei sapere se posso fidarmi. E forse — solo forse — se in mezzo a
tutto quel tumulto, un pensiero, anche solo uno, è rivolto a me.
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