Cap 27 - L'aboleth minaccioso

Neverwinter – 16° midwinter

Scendere le scale della Casa della Conoscenza, in teoria, dovrebbe essere un’operazione semplice, lineare, quasi noiosa, ma dove altri vedono semplici gradini e corrimano, Britz vede opportunità.
La sua statura minuta, che spesso gli ha fatto guadagnare gomitate involontarie in mezzo a taverne affollate, qui gioca a suo favore. Scivola tra le gambe della druida con l’agilità di un micio tra le ombre, approfittando di ogni passo incerto, ogni sguardo distratto. È un gioco, per lui. Un balletto silenzioso che ha affinato negli anni.
Britz non può vantare i numeri leggendari di Vryssal, è vero, ma tra i due c’è un tacito accordo: il mezzelfo non conta. O meglio, nessuno lo prende sul serio. Perché, se è vero che Vryssal ha il carisma di un eroe romantico e il fascino dell’autodistruzione coi suoi muscoli guizzanti, è altrettanto vero che la sua è una tattica a sfinimento, una pioggia di tentativi che, per forza statistica, prima o poi, finisce per colpire.
Britz, invece, è un esteta della conquista. Uno stratega. Lui non si butta, studia, osserva, attende… e poi colpisce.
Tranne quando beve.
Ma quello è un caso isolato. Quella notte maledetta a Gundarlun, quando si è svegliato contornato da otto donzelle e un sedere in fiamme è un caso isolatissimo.
Peccato che i suoi amici non lo dimentichino mai. Ma proprio mai.
Non appena gli eroi scendono le scale e mettono piede nella camera ottagonale sottostante, l’aria si fa più densa, quasi palpabile. Le torce sulle pareti emettono una luce tremolante, come se esitassero a restare accese in quel luogo. E poi… iniziano i sussurri.
Non provengono da una direzione precisa. Sono ovunque e da nessuna parte nello stesso tempo. Dentro le loro teste. Parole mormorate, sibili frammentati che si insinuano nei pensieri. Nessuna voce distinguibile, nessun significato chiaro, solo quel bisbiglio incessante che graffia le pareti della mente, come un'unghia su una lavagna.
È un sibilo costante in modo disturbante. Le parole si affacciano sulla comprensione delle parole stesse, ma non entrano mai davvero. Si bloccano lì, come se qualcosa le trattenesse, come se una volontà antica si divertisse a tormentarli con la confusione.
Synthariel riesce a cogliere una parola chiara nel caos sussurrato: «scendi». Non un ordine, ma qualcosa a metà tra un invito e una minaccia, e come se le loro stesse gambe rispondessero a quel richiamo, l’unica opzione possibile è proseguire.
La stanza che si apre davanti a loro è ottagonale, grande abbastanza da far riecheggiare i passi, e così fredda che il fiato si condensa appena viene espulso (per la felicità di Britz). L’architettura, imponente e maestosa, ricorda la sacralità del sapere, ma il tempo, e qualcos’altro, hanno lasciato il segno. Quattro grandi pilastri di roccia sorreggono un soffitto ad archi, ma tutto il perimetro è adornato da arazzi che un tempo raffiguravano Oghma, il Dio della Conoscenza. Ora sono in gran parte irriconoscibili: vandalizzati, e corrosi da una melma gelatinosa verdastra che ha divorato lentamente ogni traccia di divinità.
In ogni angolo della sala ci sono piccole scrivanie, disseminate di appunti, pergamene e fogli logori. L’odore è forte, un misto di muffa e pesce marcio che si intensifica verso un passaggio ad est. Un olezzo marino, ma stantio.
Frugando tra le note, qualcosa emerge dal caos: il nome di Jhonatan Atlavas – il custode scomparso, ora probabilmente qualcosa di molto diverso – è ovunque.
È chiaro che è stato corrotto, ma la natura di ciò che l’ha trasformato sfugge alla logica. Pochi indizi, confusi, frammentati. Una parola, però, ritorna come una fissazione: “Sovranità”, scritta in modo ossessivo. Sovranità su cosa, o su chi, non è specificato.


I riferimenti diventano più oscuri. Parlano di una nuova vita donata a Jhonatan Atlavas e una frase colpisce il piccolo gnomling perché è scritta e riscritta ovunque, in maniera opprimente su pagine e pergamene:

Gli Antichi torneranno da oltre le stelle, e la malvagità attende e sogna nel profondo”.

Synthariel, nonostante la tensione che serpeggia nell’aria, riesce a mantenere la calma necessaria per concentrarsi. Le voci, le visioni, la parola "sovranità": tutto le suggerisce che ciò che stanno affrontando non ha nulla a che fare con i mindflayer. La sensazione è chiara, netta. Quella parola non le è nuova, le ronza nella mente come un’eco lontana, ma non riesce a ricordare dove l’ha letta o udita.

Il gruppo decide quindi di proseguire verso sud, oltrepassando il fetore, imboccando un corridoio stretto che si allarga presto in una nuova stanza, stipata di scaffalature in legno antico, alcuni crollati, altri ancora in piedi. I libri sono ovunque; accatastati, mezzi inzuppati, ma anche miracolosamente intatti in certi punti. L’odore qui è meno pungente e tre grossi candelabri sovrastano gli eroi che già pensano a come potrebbero portarli fuori da lì, senza farsi vedere.
Mentre Synthariel si dedica a un’analisi più attenta degli scaffali, scorrendo titoli e sfogliando velocemente pagine nella speranza di trovare un legame, una spiegazione, o anche solo una conferma alle sue intuizioni, gli altri tre trovano un modo alternativo per far fronte all’ansia crescente: la stupidità.
Il mezzelfo si lancia con agilità su una scala a binario sperando di riuscire a scivolare da una parte all’altra della grossa scaffalatura, ma la scala cigola e lui fa un po’ la figura del clown imbranato.
Scartabellando un po’ in giro, trovano un libro che pare prezioso, che parla di Neverwinter; è un libro non aggiornato, scritto prima del cataclisma, avvenuto nel 1451, così decidono di intascarselo, per poter riempire un po’ le loro tasche, che si sono pesantemente svuotate dopo essere usciti dalla cloak tower.
La decisione di tornare indietro e seguire lo sciabordio è unanime e mentre l’acqua sembra aspettarli minacciosa, una voce si insinua nella loro testa: “Scendete... vi aspetto nell’acqua...”, che, detto tra noi, è il modo meno rassicurante per invitare qualcuno a fare il bagno.
Per fortuna c’è Synthariel, che come al solito salva la situazione, e mentre gli altri si guardano nervosi, lei riesce a entrare in contatto con il mittente del messaggio mentale: un aboleth. Una creatura psionica marina con un ego smisurato e non è altro che Kzixxaro.
Kzixxaro ha piani ambiziosi: vuole conquistare il mondo emerso e trasformarlo in una gigantesca piscina infestata da aboleth. Del resto, ognuno ha il suo sogno. Peccato che nella mappa della famigerata Black Armada il suo nome campeggi bello grosso sopra Neverwinter, nonostante lui giuri di non sapere nemmeno chi siano.
E qui, il colpo di scena: non conoscere la Black Armada lo mette in svantaggio. Forse lo stanno cercando e forse è in pericolo. Oppure, meglio ancora, i quattro non dovranno nemmeno sporcarsi le mani e far lavorare gli altri.
Kzizzaro si dichiara la Sovranità, qualcosa tra un profeta e un influencer marino. Dice di voler “portare nuova vita a Neverwinter”, ma probabilmente intende morte, distruzione e controllo mentale.
Inoltre, odia i mindflayer. Ma proprio tanto.
Dell’Abisso, Kzixxarro non vuole parlare. È come se solo il suono della parola gli desse fastidio. Quando la druida lo nomina per conto dell'amica, il suo tono cambia, si fa freddo, tagliente e la mezz’elfa lo riesce a percepire chiaramente.
Secondo lui, la "Sovranità" rappresenta il futuro. Il miglioramento. L’evoluzione, ma non spiega mai davvero cosa voglia dire. Gli eroi, però, cominciano a sospettare che sia molto peggio di quanto possa sembrare.


Avanzando lungo i cunicoli umidi della Casa della Conoscenza, arrivano a una vasta distesa d’acqua scura e inquietante. Una scala, viscida di gelatina e in parte rovinata, si snoda nell’oscurità fino a un pianerottolo sommerso. Al centro della nuova stanza, che si apre con inquietante solennità, troneggia una statua di Oghma, per metà immersa nell’acqua stagnante. La scala prosegue a chiocciola, sotto la superficie, come se invitasse silenziosamente gli eroi a scendere ancora, più a fondo, più vicino al cuore della follia.
Uno dopo l’altro, tutti, tranne Myra, si tuffano o immergono nell’acqua fredda e limacciosa che li accoglie con un abbraccio gelido.
La statua di Oghma, un tempo imponente, è ormai irriconoscibile sotto la melma corrosiva. Vryssal, con l’eleganza che gli è solita, si tuffa con un urlo da battaglia che riesce solo a schizzare ancora più acqua addosso ai compagni. Britz si avvicina alla statua, come attirato da una forza sconosciuta. Appena la guarda, la sua mente viene invasa da un attacco psichico: parole ignote, un rimbombo assordante, come mille voci in una lingua che non è fatta per essere capita; riesce a chiudere la mente giusto in tempo, poi, senza pensarci due volte, sferra una spadata alla statua.
Myra, che fino a quel momento aveva osservato con attenzione da lontano, decide infine di immergersi anche lei. Avanza con movimenti rapidi e precisi, cercando di raggiungere la statua nella speranza di ottenere risposte. Quando la sua mano tocca il marmo viscido, anche la sua mente viene invasa, ma a differenza degli altri, lei capisce le parole. Parole di odio, di furia, di vendetta.

I tuoi dei saranno decapitati.

I tuoi dei saranno rovesciati.

I tuoi dei moriranno e spariranno. Dimentica i tuoi dei.

Un sussurro oscuro che cerca di annientare ogni traccia di fede. Myra riesce a chiudere la mente in tempo, ma non senza fatica.

Infine, si dirigono verso la porta sommersa che conduce oltre. È socchiusa, ma bloccata. Ci vuole tutta la forza del gruppo per cercare di aprirla, e forse anche qualcosa in più. Mentre Britz spinge con tutte le sue energie e Synthariel grugnisce nel tentativo di aiutare, Vryssal è... impegnato.
Impegnato a flexare.
I suoi muscoli non sembrano guizzare con particolare efficacia, anzi: sembra quasi che il mezzelfo stia solo assumendo pose eroiche e sensuali, più interessato a impressionare eventuali spettatori immaginari che ad aprire quella porta.
La porta, alla fine, cede con un suono sgradevole. Oltre la soglia si presenta una scena inquietante: una creatura mai vista prima, un enorme pesce gatto fluttuante, cosparso di occhi e tentacoli, levita a mezz’aria. La sua presenza grava sulla mente con una forza psichica schiacciante, come se ogni pensiero dovesse prima passare attraverso il suo filtro alieno.
L’aboleth non ha bisogno di parlare. Le parole si formano da sole nella testa degli eroi, un’invasione che porta con sé richieste, minacce e rivelazioni.
Il suo scopo, come aveva già anticipato a Synthariel, è quello di dominare Neverwinter, portando una nuova era, quella della cosiddetta Sovranità Aboletica. Non è solo in questa impresa: ha già chi si è unito alla sua causa, spontaneamente o meno. Jonathan Atlavas è uno dei suoi servitori più fedeli, ma non è l’unico; anche a Neverwinter qualcuno lo aiuta nell’ombra, senza farsi riconoscere.
Lui non vuole solo dominare, vuole che Dagult Neverember muoia. In alternativa, desidera che venga portato proprio lì, nella Casa della Conoscenza, dove tutto sembra cominciare e finire.
Intanto Britz, con una calma quasi surreale, racconta ciò che sa dell’Armata Nera, offrendo ogni dettaglio, sperando possa tornare utile il loro aiuto. Kzixxaro tenta allora di soggiogarli con un attacco mentale, ma fortunatamente fallisce dato che gli eroi resistono, forse per istinto o forse per il fatto che la loro mente è ormai un campo minato di traumi e sarcasmo.
L’ultima proposta dell’aboleth è chiara: portare Dagult Neverember lì, dinnanzi sua presenza e completare così il compito. Annuiscono silenziosamente, ma gli sguardi che si scambiano i quattro amici sono più eloquenti di mille parole. 


Mentre si muovono verso nord, accade qualcosa: dalle ombre emerge una figura familiare, o almeno un tempo lo era. Un essere umano, o quel che ne resta, con il corpo parzialmente decomposto e il volto segnato dall’orrore. Nonostante lo stato in cui versa, non c’è alcun dubbio.
È Jonathan Atlavas.
L’illustrissimo.
Il corrotto, il servitore dell’aboleth.
Prima di uscire, la curiosità prende il sopravvento. Invece di tornare subito indietro, gli eroi decidono di esplorare ancora un po’, seguendo una scia maleodorante che li guida verso est. L’odore si fa sempre più intenso, e alla fine li conduce a una stanza dove strane creature stanno scavando con ritmo ossessivo. Sono mezzi pesci, mezzi umanoidi, dalle mani palmate e gli occhi sporgenti, impegnati a rimuovere detriti e terra senza sosta.
Si tratta di Kuo-toa, servitori del grande Kzixxaro, che sembrano aver ricevuto ordini precisi: ignorare la presenza degli intrusi.
Mentre il gruppo osserva con diffidenza, Britz decide di dare un’occhiata più attenta, nella speranza che ci sia qualcosa di valore nascosto tra i resti. L’avidità, però, ha il suo prezzo: mette un piede nel punto sbagliato e attiva una piccola trappola nascosta tra i calcinacci. Un cumulo di pietre si stacca dal soffitto e gli cade in testa con precisione chirurgica.
Il tonfo risuona nella stanza, accompagnato da un grugnito di dolore e, naturalmente, da una raffica di risate trattenute a fatica. I Kuo-toa continuano a scavare come se nulla fosse. Britz, con un bernoccolo in crescita e l’orgoglio ammaccato, accapparra su qualche oggetto e segue i compagni su per le scale.



Usciti dal Vault, con ancora addosso il peso mentale e fisico di ciò che hanno ascoltato, gli eroi si trovano davanti Altharea, che li sommerge immediatamente di domande. Con un tono urgente e preoccupato, pretende risposte, e loro gliele danno, spiegando brevemente cosa si cela sotto la città: un incubo abissale, un essere millenario pronto a risalire in superficie, e una minaccia troppo grande per essere ignorata.
Non c’è tempo da perdere. Il gruppo corre a riferire tutto a Lord Dagult Neverember, non prima di aver messo le mani sul libro dell’Abisso, che sembrava impossibile far uscire dal Vault, ma che ora, per motivi ignoti, li segue.
Ad attenderli alla fortezza c’è proprio Neverember. Il suo sguardo sembra già conoscere parte della verità, come se intuire il peggio fosse ormai abitudine. Gli eroi raccontano tutto: l’aboleth, la minaccia incombente, il nome di Kzixxaro, la sovranità, e il piano che prevede la sua morte o, peggio, la sua cattura e consegna.
Synthariel però si accorge di qualcosa. In un angolo della stanza, immobile come un’ombra, c’è il sindaco. Lo stesso che aveva incrociato tempo prima, sempre silenzioso, sempre guardingo. Ora però nei suoi occhi c’è l’odio, e non è più guardingo, è pronto. È lui uno dei servitori segreti di Kzixxaro, e non appena si sente scoperto, si scaglia con furia cieca verso gli eroi.
Non arriva lontano. I pugnali di Vryssal fischiano nell’aria e si piantano nella sua fronte con precisione letale. Il corpo crolla al suolo senza dignità.
La tensione si taglia con un coltello. La soluzione pare evidente: bisogna trovare un modo per distruggere o addormentare per sempre l’aboleth, ma prima che possano proseguire con qualsiasi piano, qualcosa distoglie l’attenzione di tutti. Il sole è calato, e un suono inquietante rompe il silenzio: campane. Campane che rintoccano lente, profonde, minacciose.
Tutti si avvicinano alle finestre e ciò che vedono blocca ogni pensiero.
Una gigantesca nave fantasma si sta facendo strada verso il fiume di Neverwinter. Le vele sono brandelli oscuri, la prua scolpita a forma di teschio, il ponte popolato da ombre in armi. La nave si muove controcorrente come se l’acqua stessa le cedesse il passo. Non serve alcuna conferma.



La sua meta è chiara: sta puntando dritta verso la Casa della Conoscenza.
L’armata nera non è più solo una leggenda.








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